Un'altra città di successo nel Settecento, si direbbe Aix en Provence. A testimoniarlo, è ancora de Brosses, cui la città piace, intanto, per i soliti motivi "torinesi". Se Torino è per de Brosses «la più bella città d'Italia, anzi d'Europa», Aix en Provence è una città «veramente graziosa, la più graziosa di tutta la Francia, dopo Parigi. (35).
Ma ciò che ad Aix affascina davvero de Brosses - come nel 1767 affascinerà il pur "distratto" conte Alfieri di quegli anni (36), è lo stesso Goldoni (37)- è il Corso:
«Il punto più bello della città, e uno dei più affascinanti forse che vi siano in Francia, è la via del Corso; larghissima e lunga, vi si affacciano case alte, all'italiana; quattro file di alberi formano due controviali per la passeggiata e un largo viale in mezzo adorno di quattro fontane, l'ultima delle quali ha un getto d'acqua, una larga vasca e due cavalli, di cui uno butta acqua fredda e l'altro acqua tiepida. La via termina, da un capo con una balaustra affacciata sulla campagna, e dall'altro con un bel palazzo di proprietà del tesoriere della provincia. Questo corso tanto rinomato, e che, se si trovasse fuori della città sarebbe men che nulla in confronto al nostro (38), mi sembra tuttavia superiore a questo proprio per la bellezza dell'ubicazione e per l'agio di poter trovare, senza uscire dalle mura, una passeggiata incantevole a qualunque ora del giorno e della notte» (39).
Ai fini d'una definizione del "bello urbano settecentesco, emergono, da questa descrizione, nuovi elementi: anzitutto, abbiamo l'accenno alle "case alte all'italiana", poi quello alle fontane, e infine, quello all'ubicazione della passeggiata, non fuori, ma dentro le mura.
Quanto alle case "alte", e come del resto vedremo analiticamente in seguito, non si direbbe ch'esse trovino incondizionati consensi lungo il secolo, ma qui ad Aix esse non disturbano de Brosses esattamente perchè la strada ch'esse fiancheggiano, appare, all'osservatore, "larghissima" - lungo tutto il secolo, i palazzi verranno sempre visti in rapporto alla larghezza delle strade.
Quanto alle fontane - sulle quali, del resto, non si sofferma solo de Brosses ad Aix, ma, per esempio, anche Montesquieu (40), e Alessandro Verri (41), e M.me De Stael (42), o Chateaubriand (43) - c'è da dire che la decorazione ch'esse costituiscono, de Brosses la concepisce ancora sotto il solo profilo visivo. Sarà, insomma, abbastanza nuova, rispetto alla sua, l'interpretazione di M.me De Stael delle fontane di Piazza San Pietro (siamo nel 1807), interpretazione che ne sottolinea, piuttosto, l'aspetto sonoro:
«A qualche distanza, dalle due parti dell'obelisco (di Piazza San Pietro), s'innalzano due fontane, l'acqua delle quali zampilla senza interruzione e ricade in abbondanza sotto forma di pulviscolo aereo. Il rumore di quest'acqua, che di solito sentiamo in mezzo alla campagna, suscita nella cinta costituita dal colonnato, una sensazione del tutto nuova» (44).
Ancora sessant'anni dopo (nel 1859), mostrerà di muoversi in questo tipo di sensibilità staeliana, Nathaniel Hawthorne, anche se il suo quadro delle fontane romane è, nella fattispecie, un quadro notturno:
«L'aria era piena del sereno rumore dell'acqua corrente, la cui origine non si vedeva da nessuna parte benchè si comprendesse che doveva essere vicina. Quel suono piacevole e naturale, non dissimile da quello d'una lontana cascata nella foresta, si può udire in molte vie e piazze di Roma, quando il frastuono della città si tace; poichè consoli, imperatori e papi, i grandi di ogni età non trovaron miglior modo d'immortalare la loro memoria di quello d'una zampillante cascata che si trasforma ma non si distrugge, sempre nuova eppur immutabile. Essi hanno scritto i loro nomi in quell'elemento instabile dimostrando che dà un ricordo più duraturo del bronzo e del marmo» (45).
M.me De Stael, infatti, a proposito delle fontane di San Pietro, aveva anche alluso, citando un verso di Fontanes, all'"eterno movimento" di quelle acque, che è così simile all'"eterno riposo".
Niente di questo, ancora, nella descrizione di de Brosses delle fontane di Aix: la città settecentesca (come si è detto) non deve aver niente a che fare con la "natura", ed è per questo che non può non ignorare una circostanza come il "rumore" delle fontane staeliane, che tanto contribuisce ad assimilare "architettura" e "natura", appunto.
Quanto, infine, all'ubicazione della passeggiata dentro le mura, anche Goldoni, per esempio, ricorderà una Udine "assai bella" soprattutto per la passeggiata, che è "in mezzo alla città" (46), mentre Casanova non ricorderà, invece, la spagnola Valencia con particolare piacere, anche perchè "vi manca una passeggiata entro le mura" (47)- cosicchè, quando Malaspina a Torino lamenta, come sappiamo, la mancanza di "viali esterni", possiamo giudicare questo tratto abbastanza singolare nel suo secolo.
Comunque, anche per de Brosse, Aix en Provence non è Livorno. Aix, insomma, è una città anch'essa più "settecentesca" che "illuministica". De Brosses, infatti, ne cita la frequenza della popolazione, ma si affretta a specificare che questa frequenza è limitata al "rione dei mercanti", e in ogni caso, per la strada si vedono "molti uomini", ma "poche donne" (48).
Aix en Provence, tuttavia, non è nemmeno Torino. Intanto, essa è situata "al fondo di una valle stretta, da tutte le parti, da montagne (49) - e la secchezza di questa notazione, già ci dice quanto queste montagne siano estranee al gusto dell'osservatore. In realtà, si tratta d'un'estraneità che è di tutto il Settecento.
A parte i freddissimi ricordi di un Goldoni nei confronti d'una serie di città e cittadine dalla pianta ripida o montagnosa, appunto, quali Feltre, Bergamo o Volterra (50), il vecchio Misson, poniamo, che scrive nel 1691 e che tutti nel Settecento hanno letto, trova in Ancona una città che "lo sviluppo in alto e in basso rende in ogni caso scomoda" (51). Così, il commediografo russo Denis Ivanovic Fonvizin, nell'arrivare a Verona dopo aver superate le Alpi nel 1785, scrive che "dopo essere stati dieci giorni fra le montagne, ci rallegrammo di viaggiare in pianura. Ci sembrò di uscire da una prigione" (52).
Il profilo ineguale ("naturale") delle montagne insomma, sia come sfondo sia come eventuale "impiantito" delle città, diventerà un elemento positivo solo col Romanticismo (53), ed è per questo che la popolazione di Aix en Provence non può non mettere la città, sul piano del gusto, ad un livello inferiore rispetto ad una Livorno, ma anche alla stessa Torino.
Ma un altro neo di Aix, è per de Brosses il materiale in cui essa è costruita:
«La città, fino all'ultima casa, è costruita in pietra di taglio (...) La pietra di taglio di Aix non è bella, e per terminare di colorirla, le sue schegge vengono ridotte a sabbia fine, con la quale si fa una brutta malta terrosa; poi, con grandi scope, ci impiastricciano tutte le case nuove; e devono essere proprio belle per se stesse, per no restare sfigurate da codesto orribile belletto» (54).
Ora, è da ripetere che simili procedimenti sembrerebbero, nei tempi, condizionati soprattutto dal pregiudizio, sistematico, contro l'architettura a mattoni nudi. Rilevano infatti Thomas K. Derry e Trevor I. Williams che, se le cave di argilla, in questo periodo, erano in Europa molto più numerose di quelle di pietra da taglio, "consentendo così un'estensione dell'uso del mattone", è anche vero che architetti, come per esempio l'inglese John Nash, "resero comune l'abitudine di rivestire opere mattoni con intonaco; questa miscela di calce e sabbia, una volta dipinta e incisa, dava l'impressione di una parete di pietra massiccia" (55).
E' evidente, dunque che ad Aix - come anche a Livorno - si era dovuto operare pressappoco su dettami del genere, ed è altrettanto evidente, in conclusione, che i risultati così efficacemente descritti da de Brosses, sono i risultati d'un pregiudizio, e anzitutto, d'un pregiudizio di puro gusto.
Ma la descrizione debrossiana di Aix, è interessante almeno per un ultimo aspetto: la città vi emerge anche per i suoi elementi mobili, oltre che per quelli immobili tradizionali. E' quando de Brosses accenna al "gran numero di lettighe a braccia con gli stemmi e le rivestiture di velluto", che percorrono in continuazione le strade della città, e che compensano la mancanza di "belle carrozze", come invece si vede a Parigi (56).
Questo aspetto dell'arredo urbano, in cui rientrano a pieno titolo anche elementi non strettamente architettonici, sarà messo in rilievo, per esempio, anche da un Samuel Sharp e da un Wincklmann a Napoli (negli anni centrali del secolo) (57), o da un Casanova in Inghilterra - e alla metà del secolo XIX, da Dickens, che scrive questo bellissimo passo sulle portantine di Genova:
«Siccome è impossibile che le carrozze passino per queste vie (le strettissime vie del "centro storico" della città), in diversi luoghi ci sono portantine da nolo, dorate o ornate diversamente. Ce ne son poi moltissime private, appartenenti alla nobiltà o alla borghesia, e queste, la sera dopo il tramonto, si vedon passare dappertutto precedute da portatori di grandi lanterne fatte di tela tesa su di un'ossatura: le portantine e le lanterne succedono legittimamente alle lunghe file di pazienti e maltrattatissimi muli, che giran tutto il giorno per queste viuzze, facendo tintinnare i campanellini che hanno al collo. Le une seguon gli altri con la stessa regolarità con cui le stelle seguono il sole» (58).
Inutile sottolineare come questa poetica urbana, la quale, nell'arredo d'una città, include anche i suoi elementi mobili, sia una poetica che non s'interrompe mai, dal Settecento in avanti, trovando, anzi, ai nostri giorni, qualcuno fra i suoi più autorevoli assertori
(59).
(35) CHARLES DE BROSSES, op. cit., p. 17
(36) VITTORIO ALFIERI, op. cit. p. 128 (epoca III, cap. IV)
(37) CARLO GOLDONI, op., cit., vol. II p. 421 (parte III, cap. I)
(38) De Brosses qui allude certamente una circonvallazione che, col nome di "le Cours", circondava, ancora ai suoi tempi, Parigi (cfr. A. FRANKLIN, Les anciens plans de Paris - notices historiques et topographiques, vol. II, Paris, L. Willem, 1880, p. 94 n. 26)
(39) CHARLES DE BROSSES, op. cit. p. 17
(40) MONTESQUIEU, Viaggio in Italia, cit., per esempio pp. 159, 184, 220.
(41) ALESSANDRO VERRI, cit., p. 250 (NOTTE VI colloquio IV).
(42) MADAME DE STAEL. Corinne ou l'Italie (1807), Paris, Garnier, s.d., pp.62-63
(43) CHATEAUBRIAND, op. cit., p. 63.
(44) MADAME DE STAEL. op. cit., pp. 62-63
(45) NATHANIEL HAWTHORNE, Il fauno di marmo, trad. it. GIORGIO SPINA, Milano, Rizzoli, 1961, . I pp. 132-133 (cap.16).
(46) CARLO GOLDONI, op. cit., vol, I p. 71 (parte I cap. XV).
(47) GIACOMO CASANOVA, op. cit., VOL. XI, p. 133 (cap. CXXVII).
(48) CHARLES DE BROSSES, op. cit., p.18.
(49) Ibid.
(50) CARLO GOLDONI, op. cit., vol. I pp. 95, 125 e 212.
(51) Riportato da CESARE DE SETA, op. cit., p. 194.
(52) Riportato in ETTORE LO GATTO, Russi in Italia, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 49. In quegli stessi anni, FRANCESCO MILIZIA (op. cit. p. 551) accetta bensì che si, possa situare "una città (...) sopra monti", ma avverte che "vanno evitati per molte evidenti ragioni i monti grandi: si può scegliere qualche colle staccato, e, scansate tutte le ripidezze, spianarvi la città o sulla cima o sulla vetta, in dolce pendio".
(53) FREIDRICH NIETZSCHE interpreterà questo fenomeno nell'epoca del tardo Romanticismo (cfr. Frammenti postumi 1886-1887, trad. it. FERRUCCIO MASINI e SOSSIO GIAMETTA, Milano, Mondadori, 1979 - III ed. italiana - p. 216): "Nel XVII secolo niente era più brutto di una montagna; essa faceva venire in mente idee di sciagura. Si era stanchi della barbarie così come noi siamo stanchi della civiltà. Le strade oggi così pulite, i gendarmi in abbondanza, i costumi così pacifici, gli avvenimenti così piccoli, così prevedibili, che si ama la grandeur e l'imprèvu. Il paesaggio cambia con la letteratura; allora essa offriva lunghi romanzi zuccherati e trattazioni galanti, oggi offre la poèsie violente et des drames phisiologistes. Questa contrada selvaggia, l'inconciliabile dominio universale delle nude rocce ennemi de la vie- nous dèlasse des nos trottoirs, des nos bureaux et nos boutiques. Solo perciò noi l'amiamo".
(54) CHARLES DE BROSSES, op. cit., p. 17.
(55) THOMAS K. DERRY e TRVOR I. WILLIAMS, Storia della tecnologia, trad. it., Torino, Boringhieri, 1977, vol. II, pp. 466-470.
(56) CHARLES DE BROSSES, op. cit., p. 17
(57) SAMUEL SHARP, Lettere dall'Italia 1765-1766, trad. it. CONSTANCE e GLADYS HUTTON, Lanciano, Carabba, 1911, pp. 103-104 (lettera XX). JOHANN JOACHIM WINCKELMANN,Lettere italiane, a cura di GIORGIO ZAMPA, Milano, Feltrinelli, 1961, p. 305. CESARE DE SETA (op. cit., p. 192) ricorda, poi, un altro elemento mobile tipicamente italiano: la gondola veneziana, che è "un'istituzione della città, fa parte del paesaggio urbano, della vita di relazioni".
(58) CHARLES DICKENS, op. cit., vol. I pp. 65-66. La tipica alternanza genovese fra muli e lettighe ( o portantine) era stata sottolineata a suo tempo anche da CHARLES DE BROSSES (op. cit. p. 32), solo che la nota di de Brosses non ha alcun rilievo letterario o poetico: "Le vie principali (di Genova) son ben lastricate, con n marciapiede di mattoni nel centro, per comodità dei muli, poichè qui un tempo usavano molto le lettighe. Ora non ci si serve più che di sedie a braccio; i trasporti di merci vengono effettuati tutti su traini".
(59) Alludo, per esempio, alle idee di GIULIO CARLO ARGAN (di cui vedi Storia dell'arte come storia della città, a cura di BRUNO CONTARDI, Roma, Editori Riuniti, 1983, in particolare p. 9 della premessa del curatore).
Theorèin - Maggio 2006